L’apostrofo

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Soverato ha l’accento dello squillo inspiegabilmente calmo di Squillace, e fu contornato da quel panorama che conobbi la mia lei mentre passavo accanto al castello che fece da apostrofo al nostro sguardo.

Lei era di quel paese a cui mancherebbe l’accento senza l’apostrofo che t’ho enunciato, ovvero il castello che vigila dall’alto dei suoi 300 e passa metri, accarezzando la vista di chiunque accenda l’infinito motore della vita, l’amore.

Era la fine degli anni novanta, e ricordo il caldo che sommergeva quell’estate zittendo le mie espressioni verbali alle belle donne, già silenziose di loro perché la maturità l’ero ben raggiunta, io reatino che raggiungevo i cinquant’anni.

Una nuvola acquietò il calore, ed io alzai gli occhi alla ricerca inebetita del quanto sarebbe durato il distacco dal torridume che accaldava la mia fisicità, e nell’alzare lievemente il capo facendo la salita, il mio sguardo ebbe la visione che tramutò in un sol quando il come, il dove ed il farò.

Lei, la donna che mi vide e sentì come me il castello come l’apostrofo che completava la nostra unione.

Era la fine degli anni novanta, che son terminati e non si son più presentati con l’uno e il nove davanti, e per me e per tutti è così che si son presentati ma così oggi li vedo io: 19.., perché la mia lei la conobbi, ci parlai, e mi svelò quel sentimento stupendo, ma proprio nella fine del millennio, mentre eravamo compagni della vita, la fine s’apprpriò anche della sua persona, ma a differenza di quel numero degli anni che non può più presentarsi, dopo la sua morte a tutt’oggi sento quel motore che t’ho nominato poc’anzi, e non m’abbandona.

Castello mio castello, sei parte del noi, e ti sento presente quando chiudo gli occhi, come lei, compagna di vita perpetua…

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